Un ospite a cena?

Per Electra

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  1. Electra Jameson
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    Era stato un colpo secco.
    Eseguito a sangue freddo, senza troppi ripensamenti né giravolte illecite del pensiero. Dopotutto non le dispiaceva condurre una doppia vita nella quale collocarsi al centro, tra la bocca dell’Inferno e la svenevole leggerezza dell’antropomorfismo. Poteva scegliere: porgere le sue labbra da donna e brandire avvenenti fisionomie umane per lanciarsi nel caldo letto del piacere o sgominare i suoi artigli acuminati e il suo folto piumaggio aquilino per donare, alla preda fatale, il bacio della morte.
    Quel corpo flaccido che giaceva inerme al suo fianco aveva di certo centellinato, con acute sofferenze, l’acre sapore di quel tocco sì affilato. La vita di quell’uomo, dalle membra ormai insanabilmente dilaniate, probabilmente non aveva colore né sinfonia: una delle tante storie generate dalla patologica mediocrità dell’essere comune.
    In ogni caso non le importava particolarmente. Ogniqualvolta si trovasse a sguainare la sua forma celata, lo spirito vendicativo generato dalla sua infanzia si mostrava incredibilmente più forte di ogni gretta ed insignificante compassione.
    Pensare che Electra potesse godere di una propensione empatica era assai erroneo, così come era erronea l’idea secondo la quale vestire i panni di un agente della polizia avesse potuto modificare la sua traiettoria personale.
    Inoltre, la natura del suo contratto esigeva l’esecuzione di un compito del quale il destino sarebbe stato agente attivo, spettatore e protagonista.


    E’ fatta. Forse è il caso di andare a divertirsi un po’ adesso, che te ne pare, donna aquila?



    A compito eseguito la forma umana prese improvvisamente il sopravvento. L’arpia che vestiva la sua opulenta corporatura chiuse i battenti e una fisionomia altrettanto florida e seducente piantò le tende, facendo spiccare quel suo seno prosperoso dall’angusto corpetto in pelle lucida sul quale un’ampia scollatura, coronata da lembi di pizzo corvino, decantava l’incontenibile femminilità di una musa clandestina.
    Una gonna striminzita e quasi laconica dall’egual tessuto mostrava con fierezza al mondo l’esemplare architettura anatomica di quelle gambe giunoniche e statuarie.
    Come l’imprevedibile abitudine le dettava in seguito all’esecuzione di un onere, Electra voleva divertirsi. Questa volta non doveva di certo preoccuparsi degli sguardi indiscreti: Roma era lungi dall’essere la Kurayami nella quale stabilmente risiedeva, la Kurayami che le puntava gli occhi addosso asserragliandola alla gola con il peso di un lavoro inservibile e formalmente esigente.
    Non che le importasse realmente qualcosa di quel tediante e pedante incarico da agente, ma in ogni caso costituiva la materia prima della sua copertura e non le avrebbe facilmente permesso di frantumarsi.

    Allora, dove andiamo stasera?



    Dileguatasi dal luogo dell’efferato atto, Electra si inoltrò per le strade non poi così misconosciute di Roma, teatro di molteplici scenari nei quali il fato richiamava l’urlo dell’impiccato e lei, ai piedi del monte sacro, forgiava l’arma del destino dal suo artiglio di arpia. Aveva davvero voglia di bersi un whiskey, bere su 141 anni di silenzi, tragedie greche e intrighi tessuti alle volte da chissà quali ignote forze. Un locale notturno spiccava dietro l’angolo ed Electra non esitò ad allungare il passo al fine di raggiungerlo il più rapidamente possibile, inoltrandosi alla volta di un tetro e lugubre parco all’interno del quale folti alberi parevano solleticare la notturna volta stellata.
    La donna arpia era forse assennatamente spietata, ma non le mancava la poesia. Sapeva godere anche dell’ineccepibile spettacolo della natura la quale, in fin dei conti, portava con sé il marchio indelebile di una brutalità onnipresente a delimitare gli angoli di ogni vivente essenza.
    Quella limpida notte le faceva pensare a Baudelaire, alle solitudini letterarie che campeggiano nelle folle, alle ubriachezze di vita che non sanno sbarazzarsi dei corpi.
    No, diciamocelo. In realtà non avrebbe mai voluto sbarazzarsi del suo corpo. Electra era molto più probabilmente la cornucopia di un Dorian Gray: avrebbe venduto la sua anima senza troppi rancori al fine di poter godere, eternamente, della sua eterna bellezza e degli interminabili piaceri della carne, se solo non avesse avuto altre valide ragioni per stipulare quell’inestricabile contratto che l’avrebbe legata al demone fino al tramonto dei tempi.
    La donna arpia aveva ormai valicato il confine della muraglia di quel tetro parco quando ebbe l’occasione di udire, a distanza, degli stridori assai vaghi. Per la curiosità che alberga ogni essere assetato di conoscenza, si avvicinò alla fonte di tale strepito e lo spettacolo fu vividamente svelato ai suoi occhi. Una corporatura robusta e virilmente definita troneggiava al fianco di inermi corpi umani le cui striature di sangue scarlatto ne dissimulavano i tratti caratteristici del volto.
    Quell’uomo era un vampiro, ed Electra aveva avuto modo di conoscere quelle fauci avide quasi con stanca pignoleria durante il secolo che aveva attraversato la sua vita.
    Sebbene il potere che caratterizzava la donna fosse puramente pragmatico e nessuna eccellente dote avrebbe potuto garantirle la vittoria, neppure il minimo sentimento di timore le sfiorò la solida mente. Aveva altri armi in serbo per quella creatura della notte, ed era inutile negare come reputasse quella muscolatura erculea assai stuzzicante. Non poteva sottrarsi ai più reietti piaceri umani e rapidamente prese la decisione di attraversare a passo deciso il nido del mostro affinché un’opportunità di approccio potesse facilmente verificarsi.

    “Ehi, bell’imbusto. Non dirmi che hai già placato la tua sete...”
    affermò la donna arpia, scostando con delicatezza il nero pizzo della scollatura affinché il suo seno opulento potesse rendersi irrimediabilmente più visibile.
     
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