Un dessert inaspettato

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    Pagina 247, figura 3. Nella foto era raffigurato l’ingresso di quella che sarebbe stata la mia nuova casa per almeno i prossimi due anni. Così come diceva il mio libro delle scuole superiori, quella era considerata l’accademia più prestigiosa dell’intera Nazione per quanto riguarda la cucina.
    Ricordo ancora il mio primo giorno di scuola. Ero terrorizzato, come un bambino che stava per affrontare il primo anno di scuole elementari. Ma questa era una paura diversa, continuavo a ripetermi che dovevo almeno provarci. Fu così che feci il mio primo passo attraverso quell’ingresso che fino ad allora avevo ammirato solo nella foto di quel libro nell’ora di arte. Era da un sacco di tempo che non entravo più in una scuola per frequentarla. Ormai avevo 23 anni e il periodo che precedeva questo l’avevo trascorso a lavorare in qualche bar o in qualche ristorante di seconda scelta, giusto per racimolare qualche soldo per continuare gli studi che la mia famiglia non poteva permettersi di finanziare.
    La hall era grande, sembrava una villa: il pavimento era in sasso lucido, le pareti lisce e perfette, le scale che portavano ai piani superiori erano ricoperte da una moquette rossa e decorata ai lati. E ovviamente c’erano gli studenti. C’era l’obbligo della divisa, in uno stile molto orientale. Il colore principale era un misto tra il grigio e un azzurro chiaro. Le ragazze portavano una gonna a pieghe e una camicetta bianca. I ragazzi dei pantaloni leggeri, una camicia bianca ed una cravatta del medesimo colore di tutto il resto.
    La voce che proveniva dall’altoparlante echeggiava in tutto il piano terra, invitando gli studenti a recarsi presso la sala conferenza, preparata a puntino per fare la conoscenza del Presidente e di tutto il corpo docenti. Arrivato la mi sono trovato all’interno di una sala dello stesso stile della hall, con poltroncine morbide, dei tavolini con un invitante buffet adagiato sopra e un telo bianco che scende dal soffitto in cui era proiettato il logo della scuola, posto nel lato più corto della stanza, subito dietro al leggio in cui si sarebbe messo il Presidente di lì a poco. Dopo poco più di un’ora il discorso del Presidente finalmente era finito. Le lezioni cominciavano dal primo giorno e la prima era quella di cucina, dove si doveva sostenere una specie di test d’ingresso.
    Ammetto che mi ero perso per cercare l’aula di cucina che era posta al secondo piano, ma prima di recarmi nella mia aula mi ero permesso di fare un giro della scuola, così arrivai con qualche minuto di ritardo, ma anche un’altra ragazza fece lo stesso. Ci ritrovammo così, spaesati e un po’ imbarazzati dalla situazione, a guardarci negli occhi, aspettando che qualcuno facesse il primo passo per bussare alla porta e presentarci alla classe che aveva già cominciato con la lezione. Feci il primo passo e bussai. Ci fu un silenzio di qualche secondo in aula, finché la professoressa non accennò un “avanti” decisamente scocciato. Sapeva che mancavano un paio di studenti, ma i preparativi erano cominciati.
    L’aula era in tutto e per tutto una cucina: un lungo bancone in acciaio al centro della sala con dei taglieri disposti lungo tutta la lunghezza. Gli studenti erano già tutti pronti, avevano indossato i loro grembiuli e i cappelli tipici da cuochi e probabilmente stavano prendendo gli ultimi appunti che la professoressa stava dando loro per effettuare la prova. Ovviamente mancavamo solo noi. In fondo c’erano ancora due taglieri, con i grembiuli ben piegati e i cappelli sopra di essi. Dovevamo solo raggiungere i nostri compagni.
    «Siete in ritardo», disse la professoressa. In sottofondo si sentiva il brusio dei nostri compagni che probabilmente si stavano facendo chissà quali idee del perché non fossimo lì con loro fin dall’inizio. La professoressa non impiegò molto per indicarci i nostri posti e con un movimento veloce del braccio ci fece capire che dovevamo sbrigarci a prepararci e cominciò velocemente a ripetere le indicazioni che i nostri compagni già avevano appuntato sui loro quaderni. Così rapidamente cominciammo a prendere carta e penna e a scrivere. Dopo una decina di minuti passata a scrivere in fretta e furia, la professoressa si alzò. «E ai due ritardatari…», disse mentre stavamo riponendo il quaderno in una posizione più comoda da consultare durante la prova pratica, «…resterete in classe a pulire l’aula e tutti gli attrezzi da cucina che verranno usati oggi. Voglio che la lasciate esattamente come l’avete trovata».
    Io e la ragazza cominciammo a guardarci, mentre gli altri ridevano per la pessima figura che avevamo fatto già dal nostro primo giorno. Ancora non conoscevo nemmeno il suo nome e già mi sentivo suo complice per qualcosa che era accaduto per caso. Ma dopo poco la professoressa, senza nemmeno parlare, puntò di nuovo il dito, questa volta direzionato verso le nostre spalle, dandoci il segnale che era cominciato il test.
    Dopo oltre 4 ore passate ai fornelli, la prova era finita. Eravamo tutti esausti. Ma mentre i piatti che avevamo preparato stavano per essere portati via per essere giudicati dall’intero corpo insegnanti, i nostri compagni si stavano già preparando per uscire. Noi sapevamo già cosa ci toccava fare, così rimanemmo gli unici studenti in classe e, dopo le ultime direttive della professoressa, se ne andò anche lei.
    Mentre ero preso a girarmi intorno per cercare di capire quale fosse la prima cosa da fare, sentii per la prima volta la sua voce: «Io sono Irene». Mi girai verso di lei e la guardai di nuovo negli occhi. Quella volta notai più particolari nel suo viso ai quali, probabilmente a causa dell’ansia da test di qualche ora prima, non avevo dato tanta importanza. Aveva gli occhi scuri, i capelli di un bel castano che alla luce sembravano avere dei riflessi rossi. Era leggermente truccata, in modo molto fine e piuttosto naturale.
    «Mi chiamo Andrea», le risposi mentre la raggiungevo per stringerle la mano. Durante la prova la guardavo spesso. Ammetto che non volevo farmi scoprire, così capitava che la guardavo mentre cucinava e di spalle la prima cosa che saltava all’occhio era il suo sedere. Cercavo di non pensarci troppo durante la prova, ma non riuscivo a farne a meno. Mentre mi avvicinavo non sono riuscito a trattenermi e avevo dato un’occhiata al seno. Sembrava una terza, forse una quarta. Senza il grembiule si notavano di più le forme. Non pensandoci, però, qualcosa dentro i miei pantaloni cominciava a muoversi e cercavo di non darlo a vedere. Per me la situazione era diventata piuttosto imbarazzante e mancava solamente che oltre a essere considerato un ritardatario diventassi anche un pervertito.
    Così la liquidai velocemente, dicendo di metterci al lavoro, ma il danno era fatto e il suo corpo era ormai scolpito nella mia mente. Mentre ero intento a pulire, la mia fantasia cominciava a costruirsi il suo corpo nudo e a rimandarlo come immagine nella mia testa. E dalla mia testa, nei miei pantaloni. Ormai per nasconderlo dovevo soltanto affidarmi alla dea bendata. Ma si sa, quella mattina non ero stato particolarmente fortunato. O forse sì.
    «Ti ho visto, sai?», sentii come una voce bassa, proprio dietro di me. Pensando a nascondere l’ennesima erezione di quella mattina, non mi ero accorto che si era avvicinata di soppiatto a me, cogliendomi di sorpresa. Mi girai di scatto e quello che vidi era il suo viso a circa 20 centimetri dal mio. Era più bassa di me, così dovevo guardarla dall’alto verso il basso. Si era slacciata la camicetta di qualche bottone, giusto per farmi gustare la vista della sua scollatura, ma dopo essermi girato fece un altro passo in avanti, fermandosi solamente una volta che il suo seno era premuto contro il mio petto.
    «Ho visto come sei messo qui sotto. È colpa mia?», disse sempre a bassa voce, con una tonalità quasi sensuale, che non sapeva di rimprovero. Io un po’ tremolante negai, ma la reazione era evidente. Non feci in tempo a trovare un scusa plausibile che già aveva allungato la sua mano verso quello che cercavo di nascondere, evidentemente non troppo bene.
    «È-È… Ti sbagli…», risposi, non trovando parole adeguate per giustificarmi. Ma aveva già cominciato ad accarezzarmi il pene attraverso i pantaloni, percorrendo tutta l’asta con la sua mano sottile. Non mi aspettavo una sua reazione così, ma ormai eravamo in ballo. Smisi di cercare scuse e cominciai a starle al gioco. Con una mano le toccai il collo, e lentamente la portai verso la sua guancia. Volontariamente tutto questo tempo l’avevo passato a non guardarla negli occhi, ma per un momento lo feci e avvicinai il mio viso al suo cercando un bacio. Entrambi sembravamo volerlo e in quel momento sentii la zip dei miei pantaloni slacciarsi e subito dopo Irene si abbassò per calarmi pantaloni e boxer. Accarezzò di nuovo il mio pene con le mani, ma questa volta non c’era nessun indumento che mi separava dalla sua pelle calda. Aveva iniziato a guardarlo, mentre faceva scivolare lentamente le sue dita lungo tutto il mio membro. Non ci volle molto prima che lo prendesse tutto in mano e cominciasse a muoverlo, prima lentamente e poi aumentando man mano il ritmo. Io ero preso dallo stupore: non riuscivo a capire come mai una ragazza che avevo appena conosciuto mi stesse facendo tutto questo, per di più in un’aula di scuola. Mi passò subito, non mi aspettavo di trovare una risposta a tutto questo in quel preciso momento. Abbassai lo sguardo e nello stesso istante lei lo alzò verso di me, facendo un sorriso. Mantenendo il contatto visivo avvicinò il viso al mio pene, ormai impazzito per lei, e dopo un leggero bacetto sulla punta tirò fuori la lingua e iniziò a leccarlo delicatamente, ma senza esitazioni. Poco dopo con una mano alzò il mio pene e molto lentamente, a partire dalla base, lo leccò fino in cima, terminando con un assaggio del grande con l’intera bocca. Era arrivato il momento della portata principale, così, chiudendo gli occhi, lentamente inghiottì il pene, arrivando a metà della lunghezza. Ogni volta avanzava di un centimetro verso la base e vedendo come ormai era tutto bagnato dalla sua saliva capii che era riuscita a metterlo in bocca quasi completamente.
    Nel frattempo la sua mano libera era andata sotto la gonna e si stava toccando, in preda all’eccitazione che quel momento dava anche a lei. Il mio desiderio saliva, ero curioso di sapere come era fatta sotto, come lei aveva già fatto con me. Volevo fare sesso con lei proprio in quel momento, noncurante del luogo in cui ci trovavamo.
    La sua testa ormai si muoveva velocemente e si sentivano rumori indecenti provenienti dalla sua bocca, ma ad un certo punto si alzò e si avvicinò di nuovo a me come all’inizio. Il mio pene premeva contro la sua pancia e le mie mani si fiondarono verso il suo sedere. L’avevo tanto desiderato prima mentre lo guardavo cercando di non farmi scoprire e in quel momento ce l’avevo tra le mie mani. Aveva un bel culetto sodo e morbido e mentre ci stavamo baciando strusciavo il mio pene contro di lei, facendole capire quale fosse il mio desiderio. A quel punto fece scivolare la gonna a terra e con essa anche le mutandine nere e visibilmente umide. Lentamente si allontanò in direzione del bancone che avevo pulito qualche minuto prima e una volta sedutasi sopra allargò le gambe, mettendo in bella mostra la sua preziosa vagina. Non era completamente rasata, aveva un piccolo ciuffo appena sopra il clitoride. Ormai non ci capivo più niente. Mi avvicinai a Irene e con una mano le toccai la vagina bagnata e non rimaneva altro da fare che darle me stesso. Dopo aver assaggiato i suoi succhi che avevano bagnato le mie dita, adagiai la punta del pene su di lei, bagnandolo e muovendolo senza ancora farlo entrare. Poco dopo, con un movimento secco, lo feci scivolare dentro. Sentivo come se mi risucchiasse, un piacere incredibile invase il mio corpo. Nel frattempo si era slacciata la camicetta e sotto portava un reggiseno bianco con il bordo nero. Fortunatamente aveva un gancio posto sul davanti, così non ci misi molto a slacciarlo. Mentre la penetravo, il seno si muoveva al ritmo dei colpi che davo così si liberò quasi istantaneamente dopo aver sganciato il reggiseno. Sentivo i suoi gemiti di piacere aumentare di intensità man mano che il rapporto continuava, così cominciai a muovermi sempre più velocemente e in profondità. Con un mano tenevo fermo uno dei due seni e con un pollice toccavo il capezzolo che sentivo indurirsi sempre di più man mano che ci giocherellavo. Così mi misi anche a leccarglielo e a mordicchiarlo leggermente, sentendo qualche suo gemito in reazione a quello che stavo facendo. Di risposta, sentivo le sue mani sulla mia schiena che se prima erano lì solo per reggersi, in quel momento erano interessate anche a graffiarmi. Così dal seno passai verso il tuo viso, cercando la strada con la mia lingua che risaliva verso il collo. Cominciammo di nuovo a baciarci, questa volta con molta più foga. Le nostre lingue si cercavano e non smettevano di giocare con quella dell’altro. Ormai non mi mancava molto per raggiungere il limite e sentivo che c’era quasi anche lei. Così mi impegnai ancora di più, ogni colpo che davo entrava sempre fino in fondo, lo scroto sbatteva contro di lei violentemente, i suoi succhi colavano di nuovo sul bancone. «Sto quasi per venire…», le dissi mentre aumentavo il ritmo. Stavo per scoppiare. Irene velocemente alzò le gambe portandole proprio dietro il mio sedere, impedendomi di uscire da lei: non avevo altra scelta che venirle dentro. In un attimo e con un colpo deciso mi liberai di tutto quello che avevo dentro, sentii lo sperma defluire da me e riempirle la vagina e nel frattempo un suo ultimo grido di piacere mi fece capire che era venuta anche lei mentre stringeva ancora di più il mio pene dentro di lei. Per almeno dieci secondi rimasi in quella posizione, con il pene ancora semi-rigido premuto dalla vagina. Tirandolo fuori notai cosa avevamo combinato: una cascata di fluidi uscirono dal suo buchetto, gocciolando sull’ano e adagiandosi sul bancone in acciaio. Il mio membro era nelle stesse condizioni e Irene, dopo essersi alzata, si accovaccio di nuovo verso di me, cominciando a leccarmelo di nuovo e ripulendo il pene dai nostri umori con la sua bocca, mentre dalla sua vagina fuoriuscivano altri liquidi che andavano a sporcare il pavimento. Ero molto sensibile in quel momento e ci misi poco a venire di nuovo, questa volta nella sua bocca, ma a lei sembrava non dispiacere.
    Quando finì con quello che stava facendo si alzò, mi fece un sorriso e si diede una sistemata. D’altronde avevamo ancora del lavoro da fare. Quella, fortunatamente, non fu l’ultima volta che ebbi a che fare con Irene, anzi. La scuola era grande, piena di aule e occasioni per avere a che fare con lei ce ne furono parecchie, nei due anni che seguirono.

    Edited by Mrs. Independent - 29/11/2016, 22:33
     
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